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domenica 16 gennaio 2011

La crisi del Porto di Gioia Tauro

Il porto di Gioia Tauro è in profonda crisi: dalle 19 di sabato 8 gennaio 2011, per 30 ore è stato praticamente fermo; nessuna nave è entrata né uscita, e non era mai successo. Era il porto più importante del Mar Mediterraneo per il transhipment (trasbordo delle merci da una nave all’altra), con 3 mila occupati compreso l’indotto, ma per il secondo anno consecutivo la società che gestisce i traffici, la CONTSHIP, chiude il bilancio in passivo (per quest’anno quasi 6 milioni di euro secondo i primi dati ufficiosi). A questo punto la chiusura o un drastico ridimensionamento non sono più concetti campati in aria, purtroppo. Le cause: la crisi economica internazionale, il calo dei traffici marittimi, la concorrenza dei porti nordafricani. Eppure i sei lavoratori portuali che esattamente un anno fa salirono per protesta su una gru della banchina lanciarono un chiaro grido di allarme, chiedendo un intervento decisivo al Governo e alla Regione Calabria; ma non è successo praticamente niente, se non chiacchiere. A settembre 2010 con la firma di un mega-accordo tra Regione, Gruppo F.S., ministri dello Sviluppo economico e dei Trasporti, l’operazione rilancio sembrava cosa fatta: un investimento di 459 milioni di euro per collegare il porto alla ferrovia (il gateway) e realizzare un “distretto logistico con grandi operatori nazionali e internazionali”; il tutto con grandi proclami e dichiarazioni soddisfatte dei vari attori. A quattro  mesi dalla stipula, la firma è rimasta tale, mentre sembra sempre più  credibile l’ipotesi che si sia trattato dell’ennesimo bluff sulle spalle  dei lavoratori. Non c’è traccia di interventi di alcun tipo, neanche  quelli più semplici, che costerebbero pochi milioni di euro e servirebbero a dare ossigeno allo  scalo. Non c’è traccia di interessamento del Gruppo F.S. se non nei proclami dei politici e nella firma dell’accordo che, come detto, è rimasta una semplice firma. È chiaro che in queste condizioni il porto di Gioia Tauro è destinato a deperire lentamente fino al totale annullamento, mentre i porti del Nord Africa si sviluppano grazie al dumping che applicano rispetto ai nostri porti, e soprattutto grazie alle iniziative lungimiranti dei governanti dei paesi interessati. Per il porto di Tangeri, in Marocco, è stata già realizzata la zona franca, mentre da noi se ne parla soltanto; anche la richiesta di trasformare il porto da scalo di primo livello concentrato quasi esclusivamente sul transhipment in punto d’approdo dedito anche al normale import-export non viene neanche presa in considerazione. Al momento solo il 2% dei circa 2,8 milioni di Teu (unità di misura dei container) movimentati risulta essere traffico classico di import-export. L’unico provvedimento urgente attuato tra quelli richiesti un anno fa è la diminuzione delle tasse di ancoraggio, mentre sono state ignorate la richiesta di defiscalizzazione del 45% dei contributi previdenziali e di abbattimento delle accise sul gasolio usato per la movimentazione delle merci. In questo modo tutto il peso economico della crisi è stato caricato sull’economia portuale, senza alcun coinvolgimento delle casse  governative. L’autorità portuale, per cercare di rimanere competitiva  con i due grandi porti concorrenti (Tangeri e Porto Said) ha diminuito le tasse sugli approdi, ma per poterlo fare rispettando le norme vigenti in materia ha dovuto tagliare altre voci di bilancio; e naturalmente di investimenti neanche a parlarne. Adesso il limone è spremuto, e le prospettive come detto non sono rosee. Eppure probabilmente  basterebbe un po’  di attenzione “vera” per trovare (ed applicare) soluzioni temporanee che permetterebbero allo scalo di continuare a vivere in attesa di tempi migliori. Una proposta da valutare, per esempio, potrebbe essere quella di utilizzare il porto di Gioia Tauro per imbarcare il traffico di mezzi su gomma pesanti diretti  in Sicilia e viceversa, senza contare che si potrebbe anche trovare il modo di creare un collegamento veloce per il servizio passeggeri alleggerendo tra l’altro anche l’A3 e Villa San Giovanni che in determinati periodi dell’anno sono praticamente  al collasso.  Il governo italiano? I due ministri competenti (Trasporti e Sviluppo economico) affermano che non ci sono fondi, investendo il ministro dell’Economia del problema, come d'altronde stanno facendo ogni giorno tutti i ministri relativamente alle proprie competenze. Forse i soldi ci sarebbero, se invece di correre dietro a progetti megagalattici ed inutili, se non dannosi, si pensasse a sopperire alle problematiche reali. Ma a fronte della crisi di una struttura del genere, che per anni  è  stata il fiore all’occhiello del nostro Paese, può ancora essere credibile chi millanta investimenti al sud promettendo sviluppo e benessere, quando non si riesce neanche a mantenere in vita quello che già c’è? 

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