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"passo la vita fuggendo dalla mia ignoranza"
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martedì 23 settembre 2014

MIGRANTI

“Uomo” è il capo, un veterano con anni e anni di servizio, “Ragazzo” è uno dei soldati. È giovane, “Ragazzo”, e come tutti i giovani è irrequieto, pieno di certezze che non trovano riscontro e di dubbi che non trovano risposta.
- Anche oggi arriveranno. E dovremo rifarlo.- dice, rivolto al suo compagno più vicino.
-Si, non finirà mai, spero solo che ci sostituiscano presto.-
-Ormai dovrebbe mancare poco, siamo in questo inferno da sei mesi. -
-Non so se arriverò alla fine, non riesco più a dormire, appena chiudo gli occhi vedo i volti di quei poveracci. Ieri mentre tu riposavi siamo andati ad affondare una barca, con il motoscafo. Erano ancora vivi, c’erano dei bambini, alcuni ci salutavano, pensavano che andassimo a salvarli. Li ho visti in faccia, sono come noi, uomini e donne, hanno due braccia, due gambe. Come possiamo trattarli così?-
-Non sono come noi, lo sai bene.- interviene “Uomo” - Sono esseri inferiori, hanno la pelle di un altro colore, sono animali e si sono ridotti così perché vivono come animali; non hanno rispetto per se stessi e per la terra in cui vivono. Non possono convivere con noi, non potrebbero farlo neanche se fossero sani. Sono infetti e li dobbiamo tenere lontani dalla nostra terra, dai nostri cari. Siamo all’estremo fronte di una guerra mondiale, loro contro noi. Sono già condannati, si sono condannati da soli; noi ci difendiamo e lo dobbiamo fare a qualunque costo. –
Gli uomini armati in piedi sul pontile della piattaforma AH19 scrutano nervosamente l’orizzonte; la foschia mattutina rende tutto più difficile. Sono preoccupati, come sempre; se non avvisteranno i barconi dovranno provvedere loro, e non sarà una cosa gradevole. Se invece i radar li avvisteranno in tempo avvertiranno il comando che invierà gli elicotteri a risolvere il problema. Non c’è dubbio che arriveranno, arrivano sempre, ogni giorno, a tutte le ore. Da tutte le direzioni. Da quando dieci anni fa il governo decise di installare le piattaforme in mare, a terra non è giunto più nessuno. L’ordine è di affondarli prima della linea di difesa sempre e comunque, o con gli elicotteri oppure con le armi piazzate sulle piattaforme; lì il mare è più profondo, il rischio che qualche cadavere infetto giunga a terra è nullo. Hanno in dotazione mitragliatrici con un raggio d’azione di due chilometri, e le piattaforme sono piazzate per tutto il fronte marino a tre chilometri una dall’altra, a dieci chilometri dalla costa.
“Uomo” rivolge lo sguardo all’orizzonte, qualcosa si sta avvicinando. Il binocolo inquadra prima una barca, poi un’altra e altre ancora. Sono decine, si ricomincia. I radar non le hanno rilevate e sono più vicine del solito. “Ragazzo” si porta alla mitragliatrice. Sono vicini, li vede in viso. Hanno visto le luci delle piattaforme, e credono di essere vicini a terra. Li vede sbracciarsi per chiedere aiuto; uomini, donne, bambini. Scappano dalla morte senza capire che la morte è con loro, sulle barche, li segue come fa sempre, come ha fatto per il soldato di Samarcanda. Sono a tiro, apre il fuoco senza attendere l’ordine, tanto sa che comunque arriverà, inesorabilmente. “Ragazzo” non pensa, spara. Cadono. In mare, dentro la barca, cadono come birilli. Sono birilli, si muovono ma sono birilli. Birilli che urlano, ma sono birilli. Birilli adulti, birilli bambini, birilli vecchi, ma sempre birilli. Il rumore delle armi aiuta, ti stordisce, non ti fa pensare. È facile, prima di cominciare a sparare ti dici che non puoi fare diversamente, che sono esseri inferiori e sono un pericolo, poi inizi a sparare e fino a quando non smetti va tutto bene. È facile prima e durante. Il problema è dopo, quando ne vedi l’effetto e il rumore non c’è più. Quando sei solo, cerchi di dormire e quegli sguardi ti perseguitano, quelle urla ti rimbombano in testa.
È finita, per adesso. Sul mare galleggiano decine di corpi, i lanciafiamme sono già in azione. I cadaveri non devono passare la linea delle piattaforme; le popolazioni della costa vivono di pesca, ma spesso i pesci pescati devono essere distrutti, a causa della radioattività. “Ragazzo” ha pensato più di una volta di farla finita, di far cessare almeno per lui quella mattanza. Ma non può, non ne ha il diritto, deve difendere i suoi cari, i suoi fratelli, sua madre che è sempre vissuta nel rispetto della natura, che non merita di morire per colpa di chi quel rispetto non l’ha avuto. E tra quella gente, quelli delle barche, quanti sono veramente responsabili e quanti ne pagano incolpevoli le conseguenze? I bambini, che colpa hanno, cos’avranno mai potuto fare nei pochi anni della loro vita per pagare un prezzo così alto?
Le barche vengono affondate con i lanciagranate, il mare è ancora una volta infetto. Infetto dai corpi corrotti dei migranti, infetto dalla bestialità umana.
Nel secolo scorso il flusso dei migranti era minimo, ben distribuito nel mondo e i paesi occidentali lo controllavano, si potevano permettere anche di fare la differenza tra gli individui. Adesso, nel 2132, tutto è cambiato. I motivi non sono più gli stessi, la migrazione è obbligata, violenta. Interi popoli scappano dai loro paesi contaminati da radiazioni, rifiuti tossici, malattie; da dove anche mangiare è un rischio mortale. Scappano verso paesi più vivibili, dove la morte chimica non ha ancora preso il sopravvento. E chi li vede arrivare non può permettersi di farli entrare. Sono infetti, portano con loro mali incurabili, sono incurabili essi stessi e i loro figli sono o saranno infetti. Non c’è soluzione, anzi ce n’è solo una: quella definitiva. Alcuni governi hanno proposto di “terminare” definitivamente quei paesi; raderli al suolo, per isolarli e sperare che con il tempo, probabilmente migliaia di anni, la natura rimetta le cose a posto. Certo, la natura, quella stessa natura che per secoli nessuno ha considerato. La discussione è aperta, prima o poi dovranno fare qualcosa. Nel frattempo “Uomo” ed i suoi compagni eseguono. 
Mentre lotta contro i suoi incubi, “Ragazzo” vede in mare, proprio sotto di lui, un corpo, una bambina; stranamente galleggia a faccia in su. Gli occhi sbarrati, il volto pallido, un attimo poi il getto del lanciafiamme cancella tutto. Una mano si appoggia sulla sua spalla, da dietro una voce gli annuncia:
- domani verranno a sostituirci, finalmente. È appena giunto il dispaccio.-
- domani, chissà quanti altri morti, fino a domani…-
-stavolta non dovremo tornare in caserma -continua la voce- potremo andare direttamente a casa, il dispaccio dispone una licenza di un mese e il viaggio pagato fino a destino, a casa o dovunque vogliamo. Tu dove andrai?-
“Ragazzo” si volta, guarda il compagno che ha parlato:
-…io? …a casa…. A Nairobi, in Kenia.-

Questo racconto è tratto dal libro di Pasqualino Placanica “Storie rriggitane” edito da Disoblio Edizioni

venerdì 19 settembre 2014

Onestamente, mi avete scocciato!



Onestamente, con la vostra incoerenza, con la vostra ottusità, con la vostra saccenza, con la vostra supponenza, con la vostra arroganza, con la vostra logorrea, con la vostra falsità, con la vostra ambiguità, con la vostra ambizione, con la vostra strafottenza, con la vostra apatia, con il vostro protagonismo, con la vostra boria, con la vostra pigrizia, con il vostro vittimismo, con tutto questo e altro ancora.... MI AVETE SCOCCIATO!!!!!! Andate a zappare la terra, senza crearvi problemi che non avete. Lasciate perdere i discorsi complicati, abbandonate gli argomenti difficili, lasciate che altri decidano per voi, di voi, dei vostri figli, dei vostri nipoti.  Non è vero che qualcuno vi vuole sottomettere, non è vero che qualcuno vi ha depredati, non è vero che qualcuno vi sta succhiando il sangue, non è vero che qualcuno vi sfrutta. Calate lo sguardo a terra e non vedrete niente; mettetevi i tappi nelle orecchie e non sentirete niente; non pensate e non farete danni. ZAPPATE, ZAPPATE, ZAPPATE. E quando trarrete i frutti del vostro lavoro dal terreno, ricordatevi che il terreno non è vostro, vostro è solo il sudore che ci avete messo. Andate a ringraziare chi vi ha permesso di zapparlo, sperando che vi conceda ancora di farlo. E non ve ne vergognate, è la vostra natura, non c’è niente di male ad essere  servi, o meglio ancora schiavi, ad essere sottomessi. Non è colpa vostra. Ma poi come fareste a vergognarvi, siete abituati. Siete servi figli di servi, nipoti di servi, discendenti di servi. Non sapete, non concepite non prendete neanche in considerazione la possibilità che si possa vivere diversamente. Come il cane che aspetta nell’angolo della stanza sperando che il padrone gli conceda l’osso che ha spolpato, così voi aspettate sperando che chi vi sfrutta vi conceda il suo sguardo benevolo e l’elemosina per potere vivere, o sopravvivere ancora un giorno. E lavorate, poi respirate, poi vegetate, poi lavorate, non vi create problemi che non avete, non pensate al futuro, per voi non c’è un futuro. Per voi domani non sarà un altro giorno. E vaffanculo!

giovedì 18 settembre 2014

REGGIO-VERGOGNA. Per la Madonna una toppa peggio del buco.

DRAPPO 2013

DRAPPO 2014


Gentile Direttore, so che la città ha problemi seri di tutti i tipi e che quello che tratterò io non è (o non sembra) uno dei più importanti, prenda questa mia come una lettera personale a lei indirizzata, se vuole, ma io non posso fare a meno di scriverla. Non posso fare a meno perché tratta un argomento che il suo giornale ha già trattato un anno fa con un articolo a mia firma, intitolato “Ildrappo sdrucito e l'illuminazione accesa della città stracciona”. Il pezzo ebbe allora quasi mille condivisioni su Facebook e fece il giro del mondo suscitando indignazione dappertutto. Ricorda lo scalpore che fecero le immagini del drappo amaranto al balcone di Palazzo San Giorgio, lacerato dall’usura e appeso con noncuranza in rappresentanza della Città in occasione della Processione della Santa Effige della Madonna della Consolazione?  Allora io affermai che quel drappo sdrucito rappresentava agli occhi degli estranei una città stracciona, che però in realtà stracciona non era, bensì così la facevano apparire i suoi amministratori con riferimento ai dirigenti comunali preposti, non ai commissari appena giunti in città. Lasciai aperto uno spiraglio alla trascuratezza, alla poca attenzione di pochi a danno di molti. Oggi, 13 settembre 2014, un anno dopo, mi ritrovo a dovermi smentire clamorosamente. Non si tratta di trascuratezza, si tratta di malafede e meschinità, non trovo parole diverse per definire quello che ho visto oggi. Al balcone di Palazzo San Giorgio, in occasione della Processione della Sacra Effige c’era lo stesso drappo amaranto dell’anno scorso, esposto parzialmente, capovolto con la parte sdrucita nascosta (malamente) alla vista. Come la serva che occultava la sporcizia sotto il tappeto per non far troppa fatica.  In un anno, pur avendo preso atto dell’indignazione popolare, e lo dimostra il maldestro tentativo di occultare lo strappo, il Comune di Reggio Calabria non ha trovato il tempo o magari il denaro (forse occorreva stanziare in bilancio una cifra ad hoc. Quanto costerà mai, un pezzo di stoffa amaranto?) di sostituire quel drappo. Forse esagero a dare importanza a cose del genere, io sono un romantico sentimentale, mi aggrappo alla storia della città, all’immagine esterna, alla nostra bella gente, a quello che Reggio potrebbe essere se solo prevalesse la parte buona. Mi scusi, direttore, se l’ho disturbata, cestini pure questa lettera, se vuole. Non mi offenderò, so benissimo che ci sono problemi ben più importanti da affrontare, solo che mi preoccupa il fatto che saranno (forse) sempre le stesse persone, quelle del drappo e tanti altri come loro, a doverlo fare.