TUTTI I DIRITTI RISERVATI

© I contenuti di questo blog, se non diversamente indicato, sono di proprietà esclusiva dell'autore/amministratore. Tutti i diritti sono riservati.
Per eventuali autorizzazioni su specifici contenuti effettuare apposita richiesta tramite email all'indirizzo pasplaca@gmail.com .
"passo la vita fuggendo dalla mia ignoranza"
NON CAPISCO...E NON MI ADEGUO!!!
su questo blog non si pubblicano commenti anonimi

martedì 27 marzo 2012

La ''falsa politica'' e gli uomini d'onore

Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre cavalieri che secondo la leggenda fondarono le tre mafie(Illustrazione di Enzo Patti)

La recentissima notizia del caso di Marco Puntorieri, ''uomo d'onore'' ucciso dalla 'ndrangheta dopo essere stato attirato in un tranello con l'inganno, mi ha fatto tornare alla mente un episodio della mia vita accaduto quando ero sotto le armi, che in qualche modo ha contribuito a formare il mio modo di pensare ed agire attuale. 
L'anno era il 1982, la localita' non ha importanza, era una caserma dell'Esercito, una di quelle cosiddette ''operative'' e per questo oltre ai bravi ragazzi come potevo essere io vi si trovavano arruolati anche tanti facinorosi, aspiranti malavitosi o delinquenti titolati a tutti gli effetti. I bravi ragazzi erano spesso considerati dagli altri dei fessacchiotti e per questo emarginati, ma a volte l’istinto di aggregazione che ha sempre caratterizzato la nostra gente quando si trova lontano da casa prevaleva, cosicché qualcuno veniva accettato nel gruppo. E così fu nel mio caso; va detto che io sono cresciuto “in strada”, ed ero già allora abituato ad avere a che fare con gente “border-line” con la giustizia. In definitiva, sapevo come comportarmi per stare tranquillo, e stare tranquillo a quei tempi era una necessità per chi come me non intendeva entrare in meccanismi pericolosi. 
L’essere accettato non comportava automaticamente la partecipazione alle attività poco ortodosse del gruppo (per fortuna, dico io); in caserma a quei tempi le problematiche da affrontare erano di due tipi: quelle prettamente militari, e quelle attinenti alla vita sociale tra commilitoni di tutte le località d’Italia e per questo con molteplici aspetti e sfaccettature. In caserma fare parte di un gruppo, quale che ne fosse la provenienza, aiutava molto, e la fratellanza per me si concretizzava nelle uscite per andare a cena fuori, partite a carte a “patruni e sutta”, tarantelle il sabato sera in camerata quando gli ufficiali erano fuori, e tutto quanto poteva richiamare alla mente l’aspetto folkloristico dei nostri usi e costumi; ci illudevamo così di essere a casa. Accadeva però, di tanto in tanto, che i miei “amici” ritenessero necessario regolare qualche problema con altri commilitoni, e che, per quella deformazione mentale bacata caratteristica di certi ambienti, l’unico modo per ottenere la cosiddetta “soddisfazione” fosse la violenza. Va detto, su questo specifico argomento, che il nonnismo in caserma era una vera e propria piaga, era praticato indistintamente dai militari anziani provenienti da tutta Italia, e aveva uno dei suoi punti di forza sul silenzio delle vittime, che venivano sottoposte a scherzi e vessazioni spesso al di là del sopportabile. I gruppi composti da elementi “difficili”, ottimizzavano a loro uso e consumo la perversa usanza del nonnismo, traendone vantaggio nell’imposizione del “rispetto” e questo era un aspetto relativo a tutte le aree geografiche di provenienza, anche se per le regioni del nord era meno marcato. Nel gruppo di reggini di cui facevo parte io erano egemoni due appartenenti a famiglie dichiaratamente ‘ndranghetiste, tutti e due “battiati”, come si dice, e le regole vigenti rispecchiavano quindi quelle dell’ambiente di provenienza dei due. All’inizio ero tenuto fuori da questo aspetto dell’attività del gruppo, ma dopo un po’ di tempo, evidentemente ritenendo di potermi dare fiducia gli altri cominciarono a parlare in mia presenza anche di qualche piccolo problema da risolvere. Piccole cose, il gavettone da fare al caporale lombardo per rappresaglia oppure l’avvertimento al polentone che esagerava; comunque sempre azioni che venivano attuate applicando la mentalità mafiosa che vede il potere dello stato come un nemico, e gli “amici” come quelli che sono delegati a risolvere le controversie. Un giorno accadde che un caporale ebbe un diverbio con un componente del gruppo, giungendo quasi alle mani; furono separati dall’ufficiale di servizio, ed entrambi consegnati in caserma. Secondo i miei “amici” la cosa non poteva finire lì, occorreva ottenere “soddisfazione”; il caporale era calabrese del reggino, e questo rendeva l’episodio assolutamente importante negli equilibri perversi dell’ambiente. La discussione che deliberò l’intervento contro il caporale si svolse in mia presenza, e contribuì notevolmente a farmi comprendere la pochezza e falsità degli atteggiamenti “onorevoli” di cui vantavano la titolarità gli appartenenti all’onorata società. “Cumpari, u caporali sbagghiau, e havi a pavari!” (compare, il caporale ha sbagliato e deve pagare!) disse quello che era stato offeso (secondo lui). Ora, parlando tra persone normali, “sbagghiau” (ha sbagliato) è un concetto relativamente soft, ma quando ad usare quel termine sono i cosiddetti “uomini d’onore” la cosa cambia. Lo “sbaglio” è considerato una colpa grave ed è spesso punito con la morte, nel codice della ‘ndrangheta; ma io a quei tempi non lo sapevo, altrimenti appena sentita la parola avrei abbandonato la discussione terrorizzato, ben sapendo con chi avevo da fare. E onestamente penso proprio che mi sarei fatto i fatti miei, sarei un bugiardo se adesso affermassi il contrario. Stetti quindi a sentire il seguito della discussione, la riporto a memoria in italiano: “compare, se fossimo a casa nostra, sapremmo bene come risolvere la cosa, ma qui siamo scoperti, e dobbiamo andarci piano” - disse uno dei due “aristocratici” della ndrangheta.- “una lezione però dobbiamo dargliela, a quell’infame, dobbiamo almeno dargli un sacco di legnate” - insistette l’offeso - “certo, questo è sicuro, altrimenti qua perdiamo credibilità” - rispose l’altro. “Ma come facciamo? Non è mai solo, è difficile beccarlo in un posto isolato.” - A questo punto intervenne l’altro “ndranghetista”, più anziano e certamente più scafato degli altri presenti: “vi dico io come facciamo: gli facciamo la falsa politica! Tu devi andare da lui a rappacificarti.” - disse rivolgendosi all’offeso, che lo guardò stupefatto, ma senza dire una parola - “Gli devi dire che avete esagerato tutti e due, che per te la cosa finisce qui. Lo devi convincere che può stare tranquillo. Dopo che si tranquillizzerà, tra un mese o più, lo inviterai a bere con te allo spaccio della caserma, dopo il tramonto; lo aspetteremo per la strada, al buio, quando tutti sono in libera uscita e gli daremo la lezione che merita.” E così fu stabilito. Per fortuna, non so se per caso o perché qualcuno denunciò il progetto, il caporale dopo una settimana fu trasferito in una caserma vicina, e credo che la cosa sia finita lì. 
La “falsa politica”... Gli uomini d’onore agiscono così: nel buio, ingannando l’avversario, tanti contro uno solo. La “falsa politica”, un concetto che ho poi ritrovato più volte in testi specializzati sulla ‘ndrangheta, e che io ho potuto “toccare con mano”.  Il mito del cavaliere da cui sarebbe stata fondata la ndrangheta, i libri sacri, la Bibbia stessa, i riferimenti ai Santi, l’aspetto eroico dell’essere ‘ndranghetista, l’onore, tutte chiacchiere. Violenza, inganno, abusi, sopraffazione e meschinità, questi sono aggettivi più appropriati per definire la mafia. 
Noi eravamo ragazzi, in realtà, ed ognuno seguiva un destino che in parte era già scritto ma in parte avrebbe scritto personalmente con le sue azioni successive. Erano ragazzi anche i due ‘ndranghetisti, che pur atteggiandosi a boss commettevano l’errore di parlare di cose di ‘ndrangheta davanti ad un estraneo come me. Io ho fatto tesoro di questa ed altre esperienze che ho fatto da giovane, ma sono stato anche molto fortunato; tanti miei amici d’infanzia non lo sono stati.

domenica 18 marzo 2012

Cannavò: La leggenda della strage di Pasqua

La contrada Cannavo' di Reggio Calabria si trova sulla riva destra del torrente Calopinace, l'antico fiume sacro Apsias dei greci. Anticamente era famosa per la coltivazione della canapa, da cui secondo alcuni storici prenderebbe il nome. La tradizione orale, riportata  dallo storico Carlo Guarna Logoteta (autore tra l’altro de La storia di Reggio Calabria dal 1797 al 1860), riferisce di un orribile fatto di sangue ivi avvenuto nel XVII secolo: 
il giorno di Pasqua di un non precisato anno del XVII secolo si celebro' il matrimonio tra due giovani del paese; com'era tradizione tutti i paesani vi parteciparono allegramente. Nutrite scariche di fucile ruppero il silenzio all'uscita degli sposi dalla chiesa in segno di gioia. All'improvviso un cagnolino si avvicino' alla sposa e le urino' sul vestito nunziale. Inizialmente la cosa fu presa con ilarità e come segno di buon augurio, ma lo sposo ne rimase negativamente colpito; colto da ira incontenibile improvvisamente afferrò un fucile e sparò, colpendo a morte il cane; immediatamente il padrone del cane reagì uccidendo lo sposo. Un parente dello sposo rispose al fuoco uccidendo il padrone del cane, ed in breve tempo si scatenò quindi una furiosa sparatoria che vide irrazionalmente tutti contro tutti. Il parroco del paese si affacciò sulla soglia della chiesa e mostrò il Santissimo Sacramento cercando di placare la furia omicida, ma ne cadde vittima anch’esso, colpito a morte. Al termine dell’orribile evento pochi rimasero illesi, soprattutto vecchi, donne e bambini. Appena le autorità reggine seppero dell’accaduto informarono la Regia Udienza di Catanzaro, che si affrettò a inviare un uditore (magistrato) con alcuni bargelli (ufficiali con poteri di legge marziale). Ma l’orrore non era ancora giunto a termine e, quando l’uditore giunse a Cannavò, uno dei superstiti della tragedia, forse timoroso di essere a rischio egli stesso di condanna, lo uccise in località Malopasso. La Regia Udienza rispose ferocemente ordinando che il villaggio fosse raso al suolo. L’ordine fu eseguito da Giovan Battista Cigala, Principe di Tiriolo, che però risparmiò la chiesa spargendo sale sulle povere rovine. Negli anni successivi la chiesa praticamente abbandonata cominciò a deteriorarsi e le autorità cittadine disposero che le campane, gli arredi e la statua del Santo Patrono fossero trasportate altrove.
Fin qui la storia narrata dal Logoteta, che afferma di averla ascoltata dal parroco di Cannavò nel 1844. La stessa storia fu ripresa anche da Rocco Cotroneo, storico ed attento cronista dei fatti calabresi del primo novecento; il Cotroneo non si limitò però a riportare la tradizione orale, ma effettuò una ricerca approfondita, scoprendo che negli archivi di Reggio e di Catanzaro non vi è traccia dei fatti descritti, e che, anzi, nell’Archivio Diocesano di Reggio Calabria esiste la prova che a Cannavò ci fu sempre un parroco, dimostrazione del fatto che il paese non fu mai distrutto completamente.  Il Cotroneo ne dedusse che probabilmente vi fu veramente un grave evento delittuoso, anche se da ridimensionare rispetto alla memoria popolare, e che la reazione della Regia Udienza fu pesante ma indirizzata solo ad alcuni abitanti del villaggio. Successivamente il terremoto del 1783 causò lutti e rovine e probabilmente, come accade spesso, la fantasia popolare unificò i due eventi sino a creare la leggenda della strage di Pasqua.
Pasqualino Placanica
Bibliografia:--Carlo Guarna Logoteta: “Albo Reggino” ( “L’Avvenire di Calabria”), anno III, 1864               Rocco Cotroneo:  “Rivista Storica Calabrese”, anno 1903, pp. 133-147

martedì 6 marzo 2012

Reggio Calabria: La città sprofonda in un sottosuolo "groviera"

Da anni in città continuano ad aprirsi voragini nel manto stradale, in modo particolare da quando sono iniziati i lavori per la metanizzazione, periodo durante il quale la città è stata consegnata in ostaggio alle ditte che ogni giorno, per anni, hanno aperto e chiuso al traffico senza una logica e senza un controllo l'intera rete viaria cittadina. Al termine dei lavori il risultato visibile è stato quello di una specie di groviera, che a lungo andare ha generato nel sottosuolo cittadino una rete indecifrabile di gallerie e caverne dove scorre sia l'acqua piovana che quella scaricata in strada da perdite ed altre cause. Oggi 6 marzo, all'incrocio di Via Marvasi, praticamente davanti al Tribunale la situazione è quella che si vede in queste foto:





Di questa buca si è interessato il giornale online Zoomsud.it a novembre dell'anno scorso, evidentemente senza alcun esito positivo. E di buche come questa, piene di acqua che viene fuori da chissà dove, la città è piena. Nel settembre 2010 a Pentimele, in prossimità del PalaCalafiore, si è aperta una voragine impressionante, che ha causato l'interruzione della strada interessata. Urge un intervento di monitoraggio in merito, prima che un bel giorno la città si svegli e scopra che il Castello Aragonese, o il Tribunale, o magari, che ne so, il PalaCalafiore, non ci sono più, ingoiati da questo sottosuolo infido e comunista che lavora contro la città per danneggiare il modello Reggio.