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"passo la vita fuggendo dalla mia ignoranza"
NON CAPISCO...E NON MI ADEGUO!!!
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sabato 21 aprile 2012

I vecchi non muoiono

I vecchi non muoiono,
concludono la vita.
I giovani muoiono
seppur restando vivi,
quando per non guardare
non vedono il bisogno
quando per non sentire
non ascoltano la voce
quando per non agire
li lasciano a soffrire,
quando per non pensare
feriscono la gente.
Seppur restando vivi,
i morti si fan vecchi,
concludono la vita
pensando a ciò che fu.

giovedì 19 aprile 2012

Onore e "nnacamentu"

L’onooore, come lo ha definito il bravo Giusva Branca in un suo magistrale pezzo sulla stupidità umana applicata alla comunità reggina. Da ragazzo facevo parte della gioventù reggina, o rriggitana, come volete voi. Sono cresciuto in mezzo a gente che ne faceva un punto fermo di vita (molti) ed altra gente (pochi) che già allora lo snobbava e (addirittura!) lo combatteva.  Le controversie si risolvevano spesso con l’atteggiamento “‘nnacatorio1”, anche a scuola: un litigio tra due compagni di classe, magari per uno scherzo pesante o per questioni di ragazze, culminava spesso con il famoso “ndi virimu fora!2”. Tutta la classe cessava di interessarsi delle lezioni. E nell’ottica dell’onooore c’era chi si preoccupava di “giustificare” la controversia, atteggiandosi a personaggio carismatico (“nnacandosi”) e convocando i due contendenti per “chiarire”. Spesso non per evitare che due amici litigassero, ma per consolidare la propria figura emergente; la risoluzione della “questione” era una stella da appuntare al petto. E se invece il litigio scoppiava tra due sconosciuti per strada e uno dei due sbottava: “ieu sugnu du Gebbiuni!3”?  Terrore, se il poveretto che sentiva la frase non era in grado di opporre una frase altrettanto ricca di contenuti (!) era quasi sempre costretto ad abbozzare; ma se la risposta era, per esempio : “ieu sugnu i San Robertu!4”, allora la cosa cambiava. “Canusci a tiziu?5” “si è me cuginu! e tu comu u canusci?6” “ivumu a scola aniti, ndi rrispettamu assai!7”. E 99 volte su cento c’era “u chiarimentu8”, che terminava bevendo qualcosa di alcolico in un bar. Alcolico, niente succo di frutta o gassosa, perchè “cull’acqua non si struzza9” e se era vino, il bicchiere pieno, perchè “i menzi biccheri sunnu pi’ menzi omini!10”. Un giorno che intervenni a dividere due ragazzi che erano venuti alle mani, uno dei due, a me sconosciuto, pensando che io intervenissi a favore dell’altro mi apostrofò con la frase: “tu non sai cu sugnu ieu11” e citando un noto delinquente terminò la frase con “ieu caminu cu iddu, vint’anni i carceri, si fici!12”. “Ieu mancu un ghiornu, mi fici!13” gli risposi, suscitando l’ilarità dei presenti. Dentro di me, seppur non ancora ben definita, sentivo avversione per quel modo di agire, e lo ridicolizzavo istintivamente.  Si “nnacavano”, i miei coetanei, e qualche volta, lo confesso, mi sono “nnacato” anche io, coinvolto nel vortice di ottusità regnante. Ma io pensavo... come me tanti altri, ma la maggior parte si adeguava.
Per essere “onooorati” c’è poco da fare, dicevo: non è necessario pensare, anzi è meglio se non si fa. Si, perché da sempre pensare è ritenuto uno sforzo sovrumano, meglio non provarci neanche; se tutti pensassero anche solo normalmente, il minimo indispensabile, i grandi pensatori della storia non sarebbero poi così grandi perché direbbero cose già risapute. La natura è strana: l’unico animale intelligente è l’uomo, ma per l’uomo pensare si rivela una fatica. Più semplice utilizzare il lato animale, quello primordiale. Se tutti pensassero... ma è più comodo non pensare, accettare passivamente situazioni consolidate da secoli di apatia. La mafia e la ‘ndrangheta si definiscono anche “onorata società”, e la parola “onore” ricorre spesso nei rituali arcaici eseguiti nelle cerimonie mafiose. Nella mentalità ottusa chi mantiene l’onooore ha diritto a rispetto, mentre chi non agisce in tal senso è fuori dagli schemi, quindi emarginato perché diverso. Ed agire secondo il concetto dell’onooore é molto più facile: basta lasciarsi trasportare dall’andazzo, comportarsi secondo regole primordiali e preoccuparsi principalmente di quello che pensano gli altri; tendere a fare solo ciò che non é sgradito alla comunità. Concetto, quest’ultimo, che non sarebbe poi tanto male se non fosse che la comunità gradisce soprattutto impicciarsi dei cavoli tuoi, giudicare e condannare ogni azione secondo schemi che definire incivili è un eufemismo. Se un’azione o una condizione è sgradita alla comunità, occorre nasconderla, o se non è possibile nasconderla, rimuoverla. Un tradimento (della moglie) in famiglia, un parente omosessuale, sono condizioni da nascondere, o ancora meglio rimuovere. Ma non abbattiamoci troppo, Reggio “leva ‘a furia14”, ma queste cose accadono dappertutto, purtroppo, anche in zone dove non c’è la giustificazione della mentalità mafiosa.. Sarebbe bello, però, se da Reggio partisse la riscossa della gente civile; dopo tutto, per secoli, millenni fa, siamo stati noi i civili, e gli altri i barbari.


1)lo “nnacamento” è un atteggiamento palese di mafiosità non supportato dalla reale condizione; chi si “nnaca” di solito non è un vero mafioso, ma si atteggia a tale. il termine deriva dall’andatura ondeggiante caratteristica dei guappi di quartiere. “nnacarsi” in dialetto reggino vuol dire muoversi, far presto, ma anche, come in questo caso, camminare ondeggiando, ancheggiare 
2)  ci vediamo fuori! 
3)  io sono del Gebbione! - il Gebbione è un quartiere di Reggio 
4)  io sono di San Roberto! - un paese vicino Reggio
5)  conosci Tizio?
6)  si, è mio cugino! e tu com’è che lo conosci?
7)  andavamo a scuola insieme, ci rispettiamo molto! (il concetto del rispetto ricorre spesso)
8) il chiarimento
9)  con l’acqua non si brinda
10) i mezzi bicchieri sono per i mezzi uomini
11) tu non sai chi sono io
12) io “cammino” con lui, si è fatto vent’anni di carcere!
13) io non ho fatto neanche un giorno!
14) porta la colpa, ne sembra responsabile.

martedì 10 aprile 2012

L'innocenza nascosta.

Mi torna alla memoria il periodo in cui, non so se per esperimento innovativo o per semplice iniziativa benevola del direttore del carcere minorile di Reggio Calabria, fu chiesto a me ed ai miei amici d’infanzia di costituire una squadra di calcio da contrapporre ad una rappresentativa dei ragazzi rinchiusi. Tra di noi c’era il figlio del direttore, e quindi eravamo persone ben conosciute e evidentemente ritenute degne della fiducia che ci veniva concessa. Avevo più o meno quindici anni, eravamo tutti coetanei, e in breve entusiasti ed incuriositi ci ritrovammo a discutere di cosa avremmo trovato all’interno del carcere, da noi visto fino a quel momento solo dall’esterno. Giocammo tre partite senza alcun incidente; successivamente alla terza ci fu comunicato che non sarebbe stato possibile proseguire, non ho mai saputo il perché. Il primo giorno, di pomeriggio, ci presentammo al portone del carcere in tuta e con il pallone; come avremmo fatto per qualsiasi altra partita da giocare in strada (a quei tempi a Reggio i campi di calcio regolari erano un concetto fantastico; si giocava in spiazzi irregolari, alcuni con dei pali in legno infissi per terra da chissà chi, a volte in salita, altre con fosse degne delle strade di Beirut ai tempi della guerra del Libano. Chi arrivava prima giocava.) Naturalmente non era la stessa cosa, e già dal primo approccio ce ne accorgemmo. Documenti? E chi li aveva portati, anzi chi li aveva, alla nostra età? Qualcuno aveva la fotografia autenticata se era andato in gita con la scuola, ma certo non se l’era portata dietro. Il direttore del carcere, che ci conosceva bene uno ad uno ovviò al primo intoppo intervenendo personalmente. Entrammo nel grande androne: c’erano due cancelli, se ricordo bene; fummo indirizzati verso quello a sinistra, e prima di farci passare un agente ci controllò con una specie di metal-detector, che suonò regolarmente con tutti noi, a causa delle cerniere delle tute. Superato il secondo ostacolo ci ritrovammo in un largo corridoio; percorrendolo tutto, fino in fondo, notai su un lato un calcio-balilla ed un tavolo da biliardo a “funghetti”, giochi che erano molto in voga. Ci ritrovammo in un cortile in terra battuta grande abbastanza per disputarci una partita di calcio secondo gli standard “da strada” di allora. Ad aspettarci c’erano, oltre ad un paio di agenti in borghese, una decina di ragazzi di varie età. La maggior parte si avvicinò e da subito ci trattò con familiarità, anche perché due di loro erano ragazzi del nostro quartiere che conoscevamo bene. Ricordo che fui molto stupito di trovarli li dentro. Quattro di loro, però, non si avvicinarono subito. Eravamo stati avvisati di non fare domande ai ragazzi sulle cause della loro detenzione, di evitare qualsiasi motivo di urto, di non reagire alle provocazioni e di interpellare immediatamente gli agenti presenti in caso di problemi, ma non ce ne fu alcun bisogno. Un ragazzo Rom con il braccio destro monco si presentò come capitano della squadra, insieme al nostro capitano prese accordi per l’inizio della partita, e praticamente costrinse un agente a fare l’arbitro, minacciandolo benevolmente con un siparietto semiserio (almeno a me sembrò così). Il Rom cercò all’inizio di fare un po’ lo spavaldo con noi, correva come un cavallo mantenendo un equilibrio miracoloso visto il suo handicap, e teneva il pallone senza passarlo a nessuno, al punto di prenderlo in mano durante il gioco, ma fu  subito redarguito dai suoi compagni. Dieci contro dieci, compresi i quattro che non si erano avvicinati; il primo tempo si svolse come tutti i primi tempi delle partite amichevoli del mondo: corsa a perdifiato avanti e indietro, gioco duro, fair play degno della migliore educazione. Avevo visto chi erano i quattro ragazzi che non si erano avvicinati all’inizio; tre non li conoscevo, ma uno si, eccome! Un altro ragazzo del quartiere, di famiglia di ndrangheta blasonata, che era tristemente famoso per un gravissimo episodio criminale avvenuto qualche anno prima: la madre del ragazzo ed un uomo con cui si era appartata in macchina, suo presunto amante, erano stati uccisi a colpi di pistola; del delitto si era auto-accusato proprio lui, ed era stato condannato. Quello che non sapevo era che stesse scontando la pena proprio a Reggio. Mi disse che presto sarebbe stato trasferito, non poteva stare troppo tempo nella stessa struttura, ma non mi spiegò perché. La profonda tristezza che leggevo nei suoi occhi è un ricordo che ancora oggi mi torna alla mente periodicamente. Anche lui, come tutti gli altri, fu gentile e a parte qualche calcio negli stinchi di normale amministrazione durante le fasi di gioco, andò tutto bene. Durante l’intervallo mi trovai seduto su una panchina ai margini del campo accanto a due dei ragazzi inizialmente taciturni; parlavamo della partita, scherzandoci sopra, quando si avvicinò Antonio, uno dei miei compagni, che ad onor del vero non ha mai brillato per arguzia, e lo dimostrò anche allora: “e tu, compare, per esser qua dentro che hai fatto, una rapina?” disse rivolto ad uno dei due. Mi  si gelò il sangue, per poi sciogliersi subito per la rabbia che mi assalì, ma non feci in tempo a parlare che il ragazzo alzò lo sguardo, apparentemente spavaldo, e disse, con un accento tipico della piana di Gioia Tauro: “io? omicidio, duplice tentato omicidio e lesioni!” Antonio fece un salto indietro e se ne andò, lasciando me in imbarazzo. Ma il ragazzo, guardandomi con uno sguardo triste, proseguì la sua risposta: “faccio parte della famiglia xxxx, quella della faida”. Mi diede una pacca sulla spalla e mi disse: “ancora c’è tempo, vuoi fare una partita a calcio-balilla? trovati un compagno!” E così mi ritrovai a giocare a calcio-balilla con un ragazzo che a sedici anni aveva già ucciso volontariamente un uomo. Alla fine della partita  sembravamo tutti e venti dei compagni di scuola, o forse ancora meglio dei commilitoni. Scherzi, sgambetti, abbracci e anche un divertente fuori programma: quando io ed i miei compagni fummo radunati per essere accompagnati fuori uno dei detenuti si mischiò in mezzo a noi; sapeva benissimo che non poteva riuscire a scappare, ma ci fece segno di stare zitti, stringendosi a due di noi. Fece pochi passi e fu logicamente beccato da un agente che ridendo lo afferrò e gli diede un bel calcio nel sedere, a cui lui reagì scappando e ridendo a crepapelle. Ridemmo anche noi. All’uscita dal carcere ci soffermammo a commentare l’accaduto. Era stata una bella esperienza, tutto sommato avevamo passato una bella giornata, tornavamo a casa allegri....noi. Ah, dimenticavo! Volete sapere poi chi ha vinto per quel giorno? L’innocenza.

domenica 8 aprile 2012

Tarantella e "puzzasottoilnaso"



Il concerto dei TaranProject a Reggio Calabria: musiche travolgenti, ma soprattutto testi emozionanti.
A Reggio Calabria, il 31 marzo 2012 al Teatro Cilea si è verificato l'evento più rivoluzionario avvenuto in città negli ultimi anni. La cultura classica, quella che insieme ai veri intellettuali raccoglie intorno a se anche pseudo-intellettuali arrancanti dietro a concetti che non capiscono realmente (è di moda definirsi intellettuale o frequentarne presunti tali), ha lasciato il posto ad un'altra cultura, quella popolare. La cultura della gente semplice, ma anche dei palati veramente raffinati. La cultura degli strumenti musicali antichi e moderni, della musica popolare e dei ritmi travolgenti, delle parole soprattutto, dell'antica saggezza del popolo calabrese fatta di influenze mediterranee millenarie. La cultura dell'ospitalità, del lavoro onesto, della semplicità. C'era il Popolo della Tarantella, quello che da sempre segue gli eventi del genere nelle piazze di tutta la Calabria, ma c'erano anche tanti neofiti del genere che sono usciti entusiasti dal Cilea, canticchiando i ritmi travolgenti che per più di due ore hanno riempito il Teatro. E c'era anche qualcuno a cui non è piaciuta l'iniziativa, che ha ritenuto inopportuno utilizzare il Cilea, teatro storico della città, per un evento che "...è e resta soltanto un concerto di piazza molto colorito... " (cit. testuale). Non è cultura degna della sacralità del posto, secondo alcuni (pochi, in verità). Scandalizzato da "...un afflusso caotico di persone, bambini compresi..." c'è chi ha dichiarato di essere andato via a metà colto da "un misto di stupore e indignazione" perchè il pubblico "...si sbracciava urlando le canzoni e ballando in modo scomposto...". A questi miei concittadini vorrei dire che il Teatro Cilea è della cittadinanza tutta, non di pochi "illuminati"; che è ora di finirla di creare ed alimentare bacini di pseudo-elite che di fatto emarginano la maggioranza e sono il regno della discriminazione, del razzismo e della puzza sotto il naso. Chi vuole stare per i fatti suoi lo deve fare con i propri mezzi, non certo utilizzando i beni comuni della città. È stato un evento rivoluzionario, lo ripeto... ed io mi vanto di essere stato presente.
 ....Sugnu sbarcatu tra Riace e Caulonia
terra del sud, della lira che sona
'na tarantella a Piazza Mesi,
cu' Santu Lariu nu palestinesi
cu' l'iracheni e nigeriani,
allu Spiruni 'ndi stringimu li mani
nesci lu suli e ancora ballamu,
scind'u suli e no 'ndi stancamu
a tarantella e no 'ndi stancamu... 
(Passa lu mari)