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"passo la vita fuggendo dalla mia ignoranza"
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mercoledì 31 luglio 2013

Otello Profazio e Fabulanova: I suoni del RE



Studiamo la musica popolare da decenni, in tutto il mondo. Siamo andati a est, a ovest, a nord, a sud…. E in qualunque direzione andassimo, un personaggio, sempre lo stesso, ci appariva d’avanti imponente. Lo abbiamo ritrovato dappertutto, in giro per il mondo….” È cominciato così la presentazione di “I suoni del Re”, lo spettacolo di musica popolare e world music che ha incantato il pubblico ieri sera presso il locale “Mare Nostrum” di Catona a Reggio Calabria. Un viaggio attraverso la tradizione per giungere all’innovazione, che rendendo onore al passato si proietta verso il futuro con un messaggio positivo fatto di musica, arte e cultura. Contando sulla meravigliosa particolarissima voce di Marinella RodàFulvio Cama, voce e chitarra, lyra calabrese, oud, saz e bouzouky, Saverio Viglianisi al basso, chitarra classica, mandola e mandolino; Mimì De Leo al sassofono e ai fiati popolari; Luca Scorziello alle percussioni; Davide Beatino al basso; Alessandro Calcaramo alla chitarra, bouzouky e mandolino e Oreste Forestieri ai fiati popolari hanno magistralmente eseguito brani antichi della nostra tradizione popolare insieme ad altri inediti in un miscuglio magico di folclore e contaminazioni e riferimenti sonori del Mediterraneo fino a giungere all’altro capo del mondo: la world – music! A coronare la serata con la sua presenza Il Cantastorie per eccellenza, il grande Otello Profazio. È lui lo “strano personaggio”, quello che Fulvio Cama ed i suoi compagni hanno incontrato dappertutto nel mondo dove è passato a rappresentare la nostra terra e la sua storia. È lui che i musicisti di Fabulanova hanno voluto onorare e che per l’occasione hanno insignito del titolo onorario di RE dei cantastorie. “Da Principe dei Cantastorie a RE, va bene, vi ringrazio, ma tenete presente che punto a diventare Imperatore!” è stata la risposta divertita del grande cantautore che ha poi intrattenuto il pubblico con le sue canzoni intervallate da gag a sorpresa da par suo. Un’accoppiata vincente, da non perdere anzi da seguire attentamente Otello Profazio e Fabulanova; a cominciare dal prossimo 8 agosto, quando si esibiranno a Condofuri Superiore nella quinta serata del Paleariza Festival 2013.

venerdì 26 luglio 2013

Uno 007 sul treno



Era un po' che non lo vedevo. Angelo é uno strano personaggio. Prende tutte le sere l'ultimo treno in partenza per la periferia sud della città; tutte le sere esclusa la domenica. Lo conosco da anni, ci ho parlato decine di volte e di lui so tante di quelle cose che in realtà non ne so niente. Angelo è quello che la psicologia definisce un mitomane. Di ogni aspetto della sua vita ha ogni giorno una versione diversa: lavoro, famiglia, amanti, etc. Arriva a piedi da chissà dove, sui trent'anni ben vestito e con una cartella in pelle, individua il suo interlocutore e attacca bottone d'iniziativa, con una domanda sempre diversa. Una domanda che in realtàè un'affermazione, gli serve ad introdurlo nel personaggio del giorno, forse del momento. In realtànon so se i suoi personaggi sono a scadenza temporale oppure ispirati dal luogo o altro. "Volete vedere che oggi piove? Abbiamo ricevuto un allarme rosso per il maltempo." Oppure: "vedo strani movimenti in giro, devo chiamare il comando perché mandino una squadra" o ancora: " ma il treno è in orario? Non vorrei arrivare tardi a casa, domani devo essere in tribunale alle 8,00." Naturalmente a seguito si aspetta la domanda che gli permette di sviluppare la sua storia. Io ormai lo conosco, se mi rivolge la parola lo assecondo, se ne ho il tempo. Lo spasso è quando si rivolge a qualcuno che non lo ha mai visto e magari lo prende sul serio. Così Angelo un giorno è un avvocato importante, un altro un magistrato che ha lasciato libera la scorta, un altro un commissario di polizia, un grande ingegnere impegnato nella costruzione di qualcosa di enorme, un chirurgo che il giorno dopo deve effettuare un'operazione mai eseguita, un archeologo che ha appena fatto una grande scoperta... Da quando lo conosco tutti i giorni ha impersonato un ruolo diverso. Tutti escluso uno. Qualche sera fa, quando è arrivato, stranamente non si è avvicinato a nessuno. Si è tenuto in disparte, con l'auricolare all'orecchio, ed ha parlato al telefono per tutto il tempo, fino all'arrivo del treno. Poi è salito ed ha continuato a stare per i fatti suoi, quasi nascondendosi. Devo dire che mi sono un po' preoccupato, come a tutti i variegati tipi strani che frequentano la stazione mi ci sono un po' affezionato. È un tipo simpatico, sicuramente innocuo. Mi sono tranquillizzato quando mi è venuto in mente che sicuramente quel giorno svolgeva un lavoro che non gli permetteva di rivelare la sua identità: probabilmente era nei servizi segreti.

domenica 21 luglio 2013

L'anello di Graziella.



Era venerdì, il 21 aprile 1905. Pasquale attendeva sul molo al porto di Napoli di imbarcarsi sulla nave che lo avrebbe portato verso un futuro diverso da quello che gli si prospettava in Calabria. O almeno così lui credeva. La nave era la Weimar, un piroscafo tedesco di 5000 tonnellate; avrebbe avuto uno strano destino, tanti anni dopo: costruita in Scozia per una società tedesca, dopo aver cambiato bandiera varie volte finì affondata proprio da un sottomarino tedesco durante la prima guerra mondiale. Quando l’equipaggio della nave diede il via all’imbarco, Pasquale salì tra i primi e si sistemò alla meno peggio per un viaggio che sarebbe durato una ventina di giorni, mare e tempo permettendo. La nave partì il giorno stesso, nel tardo pomeriggio; le luci del porto di Napoli si allontanarono lentamente e Pasquale pensò di avere definitivamente dato una svolta alla propria esistenza. Con il pensiero salutò l’Italia, immaginando di tornarvi un giorno da vincitore. Non era di famiglia povera, suo padre era un commerciante di legname a Reggio Calabria con un’attività avviata e redditizia. Primo di numerosa prole (otto fra maschi e femmine) la sua era soprattutto una sfida verso il padre, che pur con tutto il bene che un padre può volere al figlio (e don Ciccio gliene voleva, eccome) lo soffocava con la sua autorità. Aveva 21 anni, e voleva vivere la sua vita, come tutti i giovani della sua età. Durante il viaggio Pasquale stava spesso sul ponte, seduto su un rotolo di gomena a scrutare l’orizzonte, pensando, anzi immaginando quello che avrebbe trovato nel nuovo mondo. Partiva avvantaggiato rispetto alla maggior parte dei suoi compagni di viaggio: suo padre, seppur furiosamente contrario all’iniziativa gli aveva dato una somma di denaro e lo aveva indirizzato verso un suo compare, don Carmelo, che abitava a Brooklyn da anni ed era ben addentrato nella comunità italiana del posto; il lavoro non spaventava, ed era qualificato in diversi rami dell’artigianato dell’epoca. Sapeva fare il calzolaio, era esperto di legname e della lavorazione dello stesso ed aveva una buona infarinatura sulle tecniche di costruzione in muratura. La nave giunse a New York l’otto maggio successivo, in anticipo sul previsto di due giorni. Era lunedì, un buon giorno per iniziare una nuova vita. Pasquale fu tra i primi a scendere, e passò il giorno ad espletare le formalità che adesso definiremmo “burocratiche”, ma che nulla avevano a che vedere con quelle di oggi almeno nei modi, che a quei tempi erano molto rudi. Alla fine ne venne fuori e, non senza qualche difficoltà si recò dal compare Carmelo a Brooklyn; don Carmelo fu felice di rivedere nel giovanotto il bambino che anni prima aveva tenuto sulle sue ginocchia e lo accolse secondo la migliore tradizione di ospitalità calabrese. La seconda cosa che fece fu occuparsi della sua sistemazione provvisoria; la prima naturalmente fu telegrafare a don Ciccio a Reggio per informarlo dell’arrivo di Pasquale e tranquillizzarlo. In un paio di settimane Pasquale conobbe quasi tutti i componenti della comunità italiana di Brooklyn; dopo qualche mese parlava abbastanza comprensibilmente l’inglese e lo capiva perfettamente. Aveva trovato lavoro (don Carmelo ci aveva messo con discrezione lo zampino) presso una ditta di costruzioni, ed in breve tempo aveva conquistato la fiducia del suo datore di lavoro. Mister Johnson non era chiaramente di origini italiane, ma con gli immigrati italiani aveva un buon rapporto e ne aveva molti alle sue dipendenze. Nel giro di sei mesi divenne capomastro nel cantiere più grande della ditta, con operai italiani, e dopo un anno fu nominato responsabile del personale. Dopo un anno e mezzo di duro impegno cominciò a pensare di recarsi in Calabria a trovare la sua famiglia, ma per vari motivi, nonostante le continue richieste della famiglia rimandò il viaggio fino alla fine del 1908. Giunse a Reggio il 20 dicembre 1908. Trovò il padre, don Ciccio, ancora più burbero ma visibilmente commosso e fiero dei risultati ottenuti dal figlio; la madre, Maria, sempre attiva e felice di rivederlo gli fece trovare una stanza tutta per lui, arredata per l’occasione con quanto di meglio si poteva trovare, mobilia e arredi vari. Era chiaro l’intento benevolmente subdolo di cercare di smuovere la sua nostalgia e convincerlo a rimanere a Reggio. Ma Pasquale, seppur evidentemente toccato dai ricordi era fermamente intenzionato a tornare in America subito dopo le festività natalizie; aveva una casa sua, una ragazza che avrebbe potuto essere la sua compagna della vita, un buon lavoro. Era una persona rispettata, a New York, anzi, a “Broccolino” (Brooklyn) come dicevano gli italo-americani. Trascorse il Natale allegramente con la sua famiglia; i suoi fratelli non facevano altro che chiedergli notizie sull’America e lui li accontentava con storie vere ed inventate. La sera, seduti intorno al braciere, teneva banco con i suoi racconti americani. Così per tutte le sere, in attesa del capodanno, compresa quella del 27 dicembre. Quella sera, alla fine della solita serie di racconti, le due sorelline di Pasquale, Anna e Graziella manifestarono la volontà di dormire insieme ai genitori; don Ciccio come al solito era contrario perchè sapeva di avere un sonno agitato, si muoveva spesso nel letto ed aveva paura di fare del male involontariamente alle figlie. Come ogni volta che le due sorelline ottenevano il permesso, avrebbe trascorso la nottata in bianco, e per questo si oppose. Le due sorelline, come sempre insistettero confidando nella madre che di solito intercedeva con successo, ma stavolta Pasquale si intromise nella discussione redarguendole: avrebbero dormito nella loro stanza, perché il loro padre era stanco e non poteva permettersi una nottata insonne. La madre non se la sentì di contraddire il figlio, e così fu! Quella non fu però una notte qualsiasi: alle cinque e ventuno del mattino del 28 dicembre un boato scosse l’intera città, e uno dei più terrificanti terremoti della storia, seguito da un violento maremoto, distrusse Reggio Calabria e Messina in pochi secondi. Le case crollarono come castelli di carta, e l’abitazione di don Ciccio non rimase immune dalla catastrofe. Alle prime luci dell’alba, agli occhi dei vivi si presentò una scena indimenticabile. Della casa di don Ciccio era crollata una parte ma le camere da letto erano rimaste in piedi....esclusa una: quella delle due sorelline, Anna e Graziella, che erano rimaste sotto le macerie. Impossibile descrivere la disperazione di Pasquale, il dolore per la perdita delle due sorelline (uniche vittime appartenenti alla sua famiglia) ed il rimorso per non avere permesso che dormissero con i genitori: se lo avessero fatto si sarebbero salvate. I morti erano migliaia, la situazione igienica pessima, i cadaveri venivano seppelliti velocemente nelle fosse comuni, prima ricoperti con calce viva per scongiurare epidemie, e così fu anche per le due sorelline che non lasciarono ai propri cari neanche una tomba su cui piangere. Furono seppellite in una fossa comune vicino alla falegnameria di don Ciccio. La situazione era improvvisamente ed imprevedibilmente cambiata; adesso a Reggio c’era bisogno di Pasquale, i suoi genitori provati dal duro colpo, non avrebbero probabilmente sopportato di vedere partire anche lui. A malincuore, dopo averci pensato e ripensato, oppresso dal rimorso e dal dolore, decise di rimanere a Reggio, ad aiutare il padre nella sua attività. Passarono gli anni, ci furono due guerre mondiali: ad una, la prima, Pasquale partecipò attivamente; per l’altra era già troppo vecchio per essere chiamato alle armi. I suoi genitori erano morti, lui si era sposato ed aveva generato sette figli, si era affermato anche in Italia come commerciante ed appaltatore ma non era riuscito a spegnere il rimorso per la morte delle due sorelline. Il dolore si era attenuato, ma il rimorso era un’altra cosa. Periodicamente tornava prepotentemente a galla, alimentato anche dall’assenza di una tomba su cui portare dei fiori. Nell’immediato dopoguerra, era il 1946, venne disposta la bonifica del terreno adiacente la vecchia falegnameria di famiglia, e quindi la fossa comune venne aperta e le salme riesumate. Quello che ne restava, logicamente, perché la calce viva aveva bruciato quasi tutto. Un giorno si presentò a casa di Pasquale un vecchio amico di suo padre, don Peppino, quasi centenario coetaneo di don Ciccio, e, dopo aver accettato un bicchiere di vino, spiegò il motivo della sua visita. Il nipote di don Peppino, Luigi, lavorava per il comune ed aveva diretto i lavori di bonifica del terreno; nel corso della bonifica erano stati ritrovati numerosi gioielli d’oro appartenenti alle vittime che avevano resistito all’azione corrosiva della calce. Luigi aveva raccolto tutti quei gioielli ed aveva ricevuto dalla Prefettura l’incarico di inventariarli. Don Peppino, che aveva visto i gioielli, ne aveva notato uno che riteneva di conoscere ed era riuscito, dopo tante insistenze, a convincere il nipote a lasciarglielo prendere per mostrarlo a Pasquale. Tirò fuori dalla tasca un anellino d’oro appeso ad una catenina da collo. “Mi sembra di riconoscere questo anello, lo portava tua madre prima di fidanzarsi con tuo padre, se ricordo bene”. La commozione assalì Pasquale, l’anello era proprio quello, sua madre lo aveva regalato a Graziella che lo teneva appeso al collo in attesa di poterlo portare al dito senza che si sfilasse (era troppo piccola ancora). -“Non lo avrebbe mai potuto portare al dito”- pensò. Don Peppino, avuta la conferma di quanto pensava, salutò Pasquale e se ne andò lasciando sul tavolo l’anello.... -“l’inventario era ancora da iniziare, uno più, uno meno....”

giovedì 18 luglio 2013

Il cittadino



Io invece sono  un cittadino. Fare il cittadino è facile. Mica come fare il mafioso o lo Stato. Ma preferirei essere chiamato "essere umano". Sono nato da solo, morirò da solo, nel frattempo sono costretto a vivere insieme ad altri miei simili. Organizzato, mi dicono; io dico sottomesso. Sono un essere umano. Da solo sono in pericolo, insieme ad altri sono pericoloso per me. Penso di essere libero di fare quello che voglio, ma è un'illusione. Un bel giorno, dopo che sono stato neonato bambino e ragazzo, appena compiuti 18 anni vengo nominato cittadino con il diritto di voto. Posso eleggere i miei rappresentanti, i miei amministratori, i miei governanti. Praticamente i miei padroni. Lo stabilisco io chi mi deve rovinare la vita. E di solito non sbaglio. Scelgo sempre il meglio, i più bravi a rovinarmela. O delinquenti conclamati, o incapaci irrecuperabili. Magari li metto insieme, così si creano l’alibi a vicenda. Sono esseri umani come me, eppure non fanno mai quello che io vorrei. Non fanno neanche quello di cui ho bisogno. Non fanno niente di utile, e neanche di inutile. Di solito fanno danno. Io sono pericoloso, perché se sono tra quelli in malafede, la minoranza, prevalgo, se sono tra quelli che in buonafede lasciano correre faccio prevalere gli altri. E il danno me lo succhio tutto, sempre io. Sono l’unico essere vivente che è carnefice di se stesso. Fare il cittadino è facilissimo, basta non fare niente. 

i precedenti monologhi qui e qui

mercoledì 17 luglio 2013

Nu Sonnu....

di Emma Chiera*


Tutt‘a ’na vota… si fici silenziu…


No ‘na machina cchiù, né ‘na perzuna,
ma ‘u mari davanti e sup’ ‘o celu, ‘a luna.

Nu rèfulu di ventu m’annacava
ed eu comu ‘na piuma… eu volava!

Mo’ era sup‘ ‘a terra, mo’ sup‘ ‘o mari,
vidia jiri l’undi… lenti… e poi tornari…

Accedi, petri, arburi eu ‘ncuntrava
e quandu supa ‘i casi poi passava
d’ ’a genti ormai stanca ‘i lavurari
sentia pochi suspiri duci e tanti amari.

… E tutt’a ‘na vota ‘i vitti arrivari
d’ammenz’ ‘e rami d’i livari,
comu farfalli ‘i milli culuri
chi mi guardavanu cu tantu amuri.

Nudu parrava, ma eu ormai ’u sapia
ca ognunu ‘i d’idi giá ‘i canuscia
tutti i sacrifici mei, tutti i me’ peni.

‘Mpatti dissiru sulu: “Ndai ‘u ti ‘nda veni!”

Nci cuntai di figghi… di niputi…
Di dericati sicchi. Ormai perduti.

Mi guardaru senza ‘u dinnu nenti,
e ad unu ad unu… lenti… lenti…
si ‘nda tornaru pe da ‘nte livari
e mi dassaru sutta ‘a luna a penzari,
c’u ventu chi ancora jia e venia
facendumi nu pocu ‘i cumpagnia…

…Poi a ‘na vota tornaru i rumuri,
i luci, i machini, i perzuni.

Eu mi levai e ‘a decisioni ‘a fici:
conzai com’ ‘o ventu ddu’ valici.

Mo’ certu tutti penzanu chi vonnu,
ma pe mia ‘on potia restari cchiù

NU SONNU!


* Poetessa e sognatrice


lunedì 15 luglio 2013

Riflessioni di un mafioso.



Mi sono sempre chiesto perché l'uomo si lascia sottomettere da un suo simile.
Non che la ricerca della risposta mi tolga il sonno, dopo tutto per me questa condizione è utile ed essenziale. Sono un mafioso. Si, uno di quelli che sottomettono gli altri. Approfitto della naturale propensione che ha l'uomo a essere schiavo di un suo simile e ne traggo un utile. La gente lavora, produce, guadagna, e io alla fine incasso. Mi prendo una parte del guadagno, in cambio di un po' di aria fritta. La tranquillità, garantisco!  A chi mi paga garantisco che non avrà problemi, nella stessa misura in cui a chi non mi vuole pagare garantisco che ne avrà, di problemi. Ma non mi prendo tutto, anzi, ho interesse che il mio "contribuente" possa continuare a contribuire, mi sembra chiaro. Se mi paga, magari lo aiuto, gli mando clienti, gli trovo un socio con capitali freschi, oppure gli rilevo l'attività se intende ritirarsi. La mia coscienza? È a posto, perché dovrei essere preoccupato? C'è chi fa di peggio. Non parlo dei miei colleghi mafiosi, alcuni sono animali, decerebrati ottusi che portano la gente alla rovina e poi passano ad altre vittime, come se la catena fosse inesauribile. Io no, con me si ragiona, conviene a tutti. Secondo voi, perché il mio commercio di aria fritta va a gonfie vele? Perché non c'è chi propone qualcosa di alternativo; o se preferite, chi dovrebbe farlo non lo fa, fa il contrario. Lo stato, il mio alter ego. Se c'è un'attività produttiva che si potrebbe sviluppare, che dà lavoro, il mio alter ego che fa? La ammazza a tasse. E in cambio gli promette aria fritta: i servizi. E non glieli da neanche. Qualcuno mi dovrebbe spiegare che differenza c'è tra il pizzo che prelevo io e le tasse che risucchia lo stato. Io mi prendo una cifra sui guadagni, una percentuale. Anche lo stato si prende la percentuale e poi ci mette sopra le tasse indirette, le tasse di concessione, le accise, le marche da bollo, le penali, la mora, le sanzioni. Io presto soldi a chi ne ha bisogno, senza lungaggini, sull’unghia. Anche lo stato presta soldi. Si, dopo avervi messi in condizioni di averne bisogno, se riuscite ad accedere alle procedure ve li presta, tanto se poi non glieli restituite se li riprende, insieme a tutto il resto. Come me. Oppure, se avete bisogno di soldi e non volete chiedermeli, ci sono le mie sale giochi. Sono illegali, ma si vincono soldi, non cioccolatini. Anche lo stato vi fa giocare, se volete. Potete anche svenarvi, fare debiti per giocare, perdere tutto, lo stato non vi pone limiti, basta che paghiate. Io no, oltre un certo limite non vi faccio andare, non mi conviene. Con me è più semplice. Pagate? Siete a posto. Non vi serve neanche conservare la ricevuta, anche perché non ve la rilascio. Non pagate? Succede di rado, e di solito dura poco. Poi pagate. Vi conviene. Ma io rischio in prima persona, mica mi nascondo dietro una scrivania.  Allo stato tutto sommato conviene che voi non paghiate...a lui. Se non pagate, prima vi avvisa (come faccio io) poi vi prende la casa, oppure la macchina (io faccio quasi lo stesso: ve le brucio) oppure vi fa fallire dopo avervi pignorato tutto e incassa quattro soldi per un bene di valore triplo o di più. Io, se non ce la fate a pagarmi, seppure a malincuore vi sparo, se non ce la fate a pagare lo stato voi vi sparate da soli. A ben riflettere svolgiamo la stessa attività, l'unica vera differenza è che io rischio la galera e lo stato no. E lui fa meno fatica. Ma dico io, vi sembra giusto? 

La replica dello Stato


Ho letto le riflessioni del mafioso, e non posso esimermi dal replicare, visto che vengo chiamato pesantemente in causa. Sono lo Stato, o meglio "sono stato lo Stato". Adesso non mi saprei definire neanche io. Mi sono evoluto ad un punto tale che la parola Stato è riduttiva.
 Basti pensare a quando vengo menzionato: "esistono pezzi di Stato deviati", per esempio. Avete mai sentito dire che esistono pezzi di mafia deviati? Fare il mafioso è facile, l'indirizzo è uno solo, il crimine. Io invece mi devo barcamenare tra decine di attività.  
Credete che sia facile tutelare i miei cittadini e contemporaneamente metterli in pericolo con i miei commerci? Produco e vendo in tutto il mondo armi, guadagno sopra sigarette e liquori. Gestisco giochi e lotterie di tutti i tipi. Devo affrontare giornalmente problemi enormi, come l'inquinamento, i rifiuti tossici, le malattie che ne derivano.
E nello stesso tempo devo legalizzare le illegalità commesse da chi è responsabile di questi problemi. Mi devo inventare ogni giorno la soluzione per fare coesistere al mio interno il crimine e la legalità, con la differenza che il crimine me lo tengo puro così com'è, seppur camuffato, la legalità la devo adattare di volta in volta alle esigenze del crimine. E le risorse poi, sembra facile reperirle.
Dovrei ricostruire un paio di città, per esempio, distrutte dal terremoto. Che colpa ne ho io se contemporaneamente c'è da mantenere all'estero qualche migliaio di soldati? E se devo acquistare nuovi armamenti? I soldi quelli sono, non ho il pozzo da cui prenderli. Me li devono dare i cittadini; anzi, veramente me li prendo, ma non bastano mai. Ecco perché poi, per esempio, non pago le aziende.
Io, in quanto Stato, logicamente non ho una coscienza. Ma in fondo in fondo, mi dispiace dovere danneggiare le piccole aziende, non pagando i miei debiti e magari contemporaneamente pignorandole per altre pendenze. Ma solo le piccole, le grandi, quelle che fanno affari all'estero no, quelle le aiuto, ne va della mia credibilità. Sono forte con i deboli e debole con i forti, è nella mia natura e nella mia storia. Sul mio territorio vengono cani e porci a fare i loro traffici, spesso su mandato di paesi stranieri.
Sanno che io sono accondiscendente, nell'interesse del commercio con l'estero. Petrolio, armi, macchinari, edilizia, fruttano miliardi di euro alle multinazionali italiane ed estere, mica mi posso mettere a rompere le uova nel paniere a gente di quel calibro.
 Sono stato lo Stato. Adesso..... Fare il mafioso è più facile, sentite a me.
N.B. La prima parte di questo racconto è qui

lunedì 8 luglio 2013

'Na caminata....


'Na caminata longa staiu facendu,
chi ccuminciau u iornu chi nascìa,
mi vitti figghioleddhu e giuvinottu,
e mi purtau mi rrivu a 'stu mumentu.

Ora chi viu u fundu d'u straduni,
chi ormai ndi fici certu cchiù di menzu,
haiu a fari i cunti cu chiddu chi fici
e cu chiddu chi di mia lu mundu dici.

Si fici cosi boni haiu a sapiri,
e si caccunu i mia nd'avi lagnanzi
vogghiu sapiri quanti e quali sunnu
undi sbagghiai e si nci fici dannu.

Mi vogghiu presentari a 'stu traguardu
mi pozzu diri "'u sacciu chi mi spetta"
non vogghiu premi pa' me maratona,
sulu rispettu pi la mè persona.

Na' caminata longa m'haiu a fari
pi gghiri a nu' giardinu chinu i sciuri
sutta a n'arburu mi vogghiu ssettari
chi d'a me vita i cunti m'haiu a tirari...